Quando una figlia non vuole curare un disturbo alimenare

Psicoterapia

È molto frequente che ragazze che soffrono di disturbi alimentari rifiutino le cure proposte, mettendo in scacco sia i famigliari che i curanti stessi

Purtroppo non è infrequente che una paziente che soffre di disturbi alimentari rifiuti le cure. Questo rifiuto mette in grande difficoltà e angoscia i genitori, e spesso i curanti non specializzati, si ritrovano con le mani legate. 

Disturbi alimentari: il sintomo

La famiglia, gli amici o i conoscenti in generale si allarmano quando vedono che il sintomo abbatte gli argini del buon senso, deformando e mortificando i corpi, quando la vita delle pazienti ne viene compromessa in modo apparentemente irrimediabile.

Il rifiuto delle cure è molto frequente nell’anoressia, ma può essere presente anche nella bulimia (che può essere nascosta più facilmente), oppure anche nel DAI (disturbo da alimentazione incontrollata). In quest’ultimo molto spesso c’è un aumento notevole del peso corporeo, che rende il disturbo evidente agli altri, anche se può non essere considerato dalla persona che lo vive.

I motivi alla base del rifiuto delle cure

Nell’anoressia le cure vengono rifiutate perché la paziente è egosintonica con la malattia, ovvero, vede la malattia come una sicurezza, una compagna di vita, un rifugio. È difficile da capire per i famigliari, ma purtroppo la malattia diventa un Altro, che diventa anche più importante di loro. Questo genera sgomento e incredulità, oltre che impotenza di fronte al progredire della malattia.

Nella bulimia invece, spesso è il muro della vergogna che impedisce di chiedere aiuto o di accedere alle cure. Nei casi più gravi, le abbuffate e il vomito creano come una sua personalità che tende ad annullare chi era la paziente prima della malattia (questo accade anche nell’anoressia).

Nel disturbo BED come nella bulimia, le abbuffate generano uno stato mentale quasi di trance, di anestesia o di spinta irrefrenabile (quando la patologia si è strutturata). Le modificazioni corporee molto spesso non sono viste come tali, e si vive in un mondo parallelo in cui il cibo diventa un compagno segreto. In tutti questi casi le pazienti non hanno una spinta nel chiedere aiuto, perché la malattia va a supplire a qualcosa di fondamentale nella loro vita psichica.

Cosa fare?

Nelle situazioni sopra descritte, molto spesso sono i famigliari che si fanno carico di formulare una domanda di cura, e altrettanto spesso gli stessi famigliari si trovano a vivere l’impotenza nel momento in cui le loro figlie rifiutano le cure.

Quando una paziente rifiuta le cure, il primo passo che un curante deve fare è quello di avviare un lavoro di intermediazione, ovvero lavorare sulla motivazione della paziente attraverso la famiglia. Si possono iniziare dei colloqui con i famigliari in cui si cerca di mettere a fuoco come la sintomatologia si manifesta, in che modo incide nelle dinamiche famigliari, quali ripercussioni procura nella vita quotidiana.

Spesso si può informare la paziente che i famigliari intraprendono questo percorso, e il solo fare questo, molto spesso allenta le difese della paziente, la quale avverte che il controllo che esercitava sulla famiglia viene a vacillare, che la dinamica di negazione viene messa in discussione.

Questo primo passaggio è fondamentale, per poter poi accedere al tempo due dell’intervento, ovvero quello di invitare la paziente a questi incontri. L’invito non diventa così solo un fatto formale, ma acquista una sostanza in quanto viene fatto attraverso i termini che il lavoro famigliare ha potuto mettere a punto, si andranno a toccare così i punti di negazione della paziente, facendo vacillare le sue difese, ed aprendo uno spiraglio di consapevolezza sulla condizione di malattia che stanno vivendo.

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